Cinema: Il sapore dell'acqua

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Il sapore dell'acqua di di Orlow Seunke, Olanda 1982, 100' con Gerard Thoolen, Dorijn Curvers, Hans van Tongeren Premio per la migliore opera prima - Mostra di Venezia 1982

Scheda informativa

Il sapore dell'acqua

di Orlow Seunke, Olanda 1982, 100'

Con Gerard Thoolen, Dorijn Curvers, Hans van Tongeren

Premio per la migliore opera prima alla Mostra di Venezia 1982

Hes è un assistente sociale olandese che lavora in un ufficio di pubblica assistenza, in cui quotidianamente si affollano utenti problematici che hanno bisogno di aiuto. Apparentemente duro e indifferente, Hes sembra difendersi con la fredda razionalità da perfetto burocrate dal pericolo di lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla sofferenza che lo circonda. La sua sicurezza viene incrinata dal suicidio di un giovane che egli non ha voluto ascoltare e la sua crisi aumenta quando due anziani coniugi, suoi assistiti, si uccidono con il gas, lasciando Anna, la figlia di quattordici anni mentalmente ritardata. Hes incontra Anna, incapace di parlare e camminare, sola nella sua miserabile casa, sporca ed aggressiva. L'assistente sociale si dedica completamente a lei per riportarla a una condizione più umana e abbandona i dettami deontologici, votandosi al rapporto con la ragazza, in un lento processo di riabilitazione fisica e psicologica. Anna ricomincia a esprimersi e ad avere fiducia, ma Hes viene allontanato dal lavoro e si separa dalla moglie. Lo si considera folle e gli viene negata la richiesta di adozione di Anna, che viene portata via per essere condotta in un istituto: ma ora è capace di camminare da sola e ha una autonomia impensabile fino a pochi mesi prima.

La messa in scena

La cornice

La sequenza, che apre il film, sintetizza gli elementi che sembrano caratterizzare una qualsiasi giornata di lavoro presso i servizi sociali. Per lo spettatore non è semplice capire chi sarà il protagonista: l'uomo più anziano - che poi scopriremo chiamarsi Hes - il giovane tirocinante dai capelli rossi, o forse qualche personaggio che qui non compare ancora ma che potrebbe emergere tra gli utenti. Anche l'attribuzione dei ruoli non è scontata, e nessuno viene presentato in modo chiaro dal film. Si coglie che si tratta di un servizio pubblico, ma non è semplice capire qui le specificità professionali degli operatori e se il tipo di servizi richiesti dall'utenza abbiamo a che fare con il campo sanitario o più specificamente sociale. Un aspetto che invece colpisce immediatamente è la totale assenza di figure femminili all'interno dei servizi, anche considerando che normalmente il cinema presenta situazioni completamente opposte, con una netta prevalenza di figure femminili nei contesti operativi legati alle professioni sociali. L'universo maschile sembra qui accentuare ulteriormente la sensazione di estraneità e di freddezza che permea l'intera sequenza

Nel prosieguo del film si scoprirà che il protagonista è Hes, che sarà designato chiaramente come assistente sociale. Il suo incontro con Anna, utente particolarmente problematica, lo porterà a rinnegare sistematicamente tutti i dettami che in questa prima sequenza ha elencato al giovane tirocinante, che presto diventerà in realtà una figura secondaria nell'economia narrativa, compiendo un percorso di totale rivoluzione rispetto al suo ruolo, al punto da essere richiamato ufficialmente dai superiori fino alla perdita del posto di lavoro.

La scelta di iniziare immediatamente mostrando l'operatività dei servizi e assumendo uno sguardo chiaramente situato - basti pensare alla ricorrenza di dettagli simbolici, analizzata nel paragrafo specifico Dove è - non si limita a creare una serie di difficoltà di orientamento allo spettatore, ma tende a dare per scontata una immediata presa di distanza da una gestione dei servizi di questo tipo, con personaggi che non paiono brillare per la loro simpatia e umanità. In questo senso, la scommessa del film appare da un lato quella di riconsiderare nel tempo il comportamento di Hes, capace di trasformare il proprio approccio; d'altro lato, apparirà evidente la polemica con una certa gestione dei servizi, per cui gli utenti sono in primis dei numeri da far "quadrare" e non delle persone che esprimono dei bisogni con cui confrontarsi.

Come appare

La messa in scena di Hes non è immediata. Prima vengono mostrati gli utenti che attendono l'apertura del servizio, poi c'è un rapido montaggio di inquadrature che presentano dettagli simbolici del lavoro quotidiano in quel luogo. Solo dopo questa serie di immagini - precisamente dopo le tre inquadrature legate alla timbratura del cartellino di lavoro, che indicano la fine della giornata professionale - vediamo il suo volto in primo piano. L'inquadratura esalta la fronte corrucciata che ben si accompagna al tono e ai contenuti delle sue parole. La scelta di presentare il personaggio principale solo dopo la serie di dettagli legati al senso di routine e di spersonalizzazione del servizio, funziona come imprinting che ci fa immediatamente associare quel personaggio ai simboli precedenti. La certezza di tale associazione si ha quando Hes si dirige fuori dall'ufficio insieme al giovane tirocinante e chiude a chiave diverse porte: se prima quel gesto poteva essere associato a un qualsiasi personaggio, ora è direttamente attribuito al protagonista. Lo stesso gesto, unito al fatto che lui è l'ultimo a lasciare il lavoro, fa intravedere un ruolo di responsabilità, anche se la mancata promozione cui si riferisce il portiere nel finale di sequenza, ci fa sospettare la frustrazione professionale in cui si trova, che ben traspare anche dal modo in cui parla degli utenti e delle sue mansioni.

Fisicamente, l'assistente sociale appare come un uomo di mezza età, non molto curato, con una calvizie incipiente. Indossa una camicia bianca e una giacca nera, senza cravatta, esattamente come il suo collega Schram, quasi si trattasse di una sorta di divisa informale del servizio. Il suo aspetto fisico piuttosto dimesso fa perfettamente pendant con lo squallore dell'ambiente in cui è ritratto, specificamente analizzato in un altro paragrafo. Il legame simbolico con l'ambiente che lo circonda è anche dato dall'insieme degli oggetti che maneggia, tutti riferiti a un'operatività di tipo freddamente burocratico: schedari, cartelline di casi, timbri, orologi.

Che cosa fa

Sul piano narrativo, Hes funge da formatore nei confronti del giovane tirocinante. Il regista però non sembra dar peso al suo stile operativo, completamente rimosso e sintetizzato nella serie di oggetti simbolo, ma solo alle sue dichiarazioni programmatiche, improntate a scetticismo e senso di frustrazione. In questo senso, va sottolineato che il personaggio è sempre in piedi e che tutti i suoi movimenti sono orientati all'uscita dal servizio. La constatazione è lapalissiana se si considera che la giornata è ormai finita, ma lo è meno se si pensa che siamo all'interno di una costruzione narrativa di fiction, in cui il regista ha scelto di non inserire nella sua prima presentazione alcun momento relativo alla giornata, al contatto con gli utenti. Quasi a voler suggerire il desiderio di andarsene, il senso di distanza da quel luogo in cui lavora quotidianamente.

Sul piano prettamente visivo, questa sensazione è reiterata dai gesti fisici che compie, tutti orientati all'archiviazione, alla chiusura. Hes compila un registro che poi consegna a Schram, chiude diverse porte con il catenaccio, strappa il foglio del calendario relativo alla giornata appena conclusa e lo butta nel cestino, proprio mentre sta spiegando al tirocinante che uno degli obiettivi del suo lavoro è quello di riuscire a svuotare ogni giorno la sala piena di utenti prima della chiusura - con una marcata e inquietante metafora tra il foglio buttato nel cestino e l'utente - percorre con sicurezza i labirintici corridoi dei sotterranei in cui ci sono gli uffici, sale al volo su un ascensore che sembra un montacarichi e infine consegna i vari documenti al portiere di notte. In questa sequela di azioni, non ha alcun contatto fisico con nessuno, non sorride mai, non stringe la mano al tirocinante né al portiere. Proprio il portiere, che sta dando da bere al suo cane e chiede a Hes notizie della sua possibile promozione, funziona come paradossale contraltare positivo: è l'unico che fa qualcosa di umano in un luogo in cui tutti i rapporti sembrano improntati alla spersonalizzazione e all'indifferenza.

Che cosa dice

Le parole di Hes riempiono a livello sonoro tutta la sequenza, al punto da apparire più un monologo che un dialogo. A parte brevi incursioni di altri personaggi - cui peraltro Hes chiede conferma delle sue tesi o quasi non risponde, come accade al portiere che domanda della promozione o al collega Schram che augura la buonanotte - le frasi sono tutte rivolte al giovane tirocinante, che dovrebbe trarre da quelle parole utili indicazioni sulla professionalità e l'operatività di un assistente sociale esperto.

Le frasi di Hes si sviluppano su tre assi privilegiati:

1) L'imperativo del dovere

- "Ora devi dimenticare tutto ciò che hai imparato"

- "Devi imparare ad accettare le cose così come sono"

- "Devi essere in grado di decidere con obiettività"

- "Ogni giorno la sala d'attesa deve essere svuotata"

- "Dobbiamo soltanto insegnare loro a cavarsela, concedere il minimo indispensabile"

Il "dover fare" assume immediatamente una valenza impositiva. Anche prescindendo dai contenuti di questi frasi, già lo stile imperativo denota una trasmissione del sapere verticale e non negoziale, che non prevede repliche, ma semplicemente adeguamento ai canoni. E' interessante cogliere l'escalation dei doveri: dimenticare ciò che si è imparato (a scuola, si presume); accettare lo status quo; sentirsi al di sopra delle parti; svuotare la sala a prescindere dai modi in cui lo si fa; concedere il minimo indispensabile. Ovvero, un modello di assistente sociale impersonale e funzionale a uno stile burocratico, efficientista e indifferente.

2) L'impotenza come virtù

- "Dare aiuto alla gente non è facile come può sembrare"

- "Non illuderti di cambiare gli altri"

- "Non puoi cambiare neanche te stesso"

- "Puoi tentare di capire, ma non farti coinvolgere"

- "Manca il tempo, mancano i soldi, noi siamo in pochi"

Il "non poter fare" sembra il corollario paradossale di quanto affermato prima. Il giovane tirocinante dovrebbe al più presto assumere una condizione di passività, rinunciando a qualsiasi velleità di sentirsi parte attiva di un processo di trasformazione, sia verso gli utenti che verso se stesso. E' interessante notare come le cinque frasi, qui riportante rispettando la cronologia temporale del testo, siano incorniciate in apertura e in chiusura da due constatazioni che hanno una loro effettiva oggettività: non è facile aiutare le persone e spesso si lavora in condizioni problematiche sia a livello organizzativo che amministrativo. Ma queste due osservazioni diventano in qualche modo una sorta di alibi aprioristico per giustificare le tre frasi centrali, che intrecciano valutazioni personali e atteggiamento professionale. L'incapacità dell'assistente sociale come valore di consapevolezza?

3) L'utente come oggetto estraneo

- "Il distacco è necessario se vuoi farcela"

- "Guai ad identificarsi completamente con gli assistiti"

- "Li interroghi, li fai parlare e poi fai una tua valutazione"

- "In loro ritroverai esasperati tutti i tuoi problemi"

- "Ecco perché ad ognuno concediamo solo dieci minuti"

- "Altrimenti fanno come i bambini: più gli dai più vogliono"

- "Il distacco è indispensabile"

Prevedibilmente, per un modello formativo che chiede obbedienza cieca e si struttura sulla consapevolezza della propria impotenza, il rapporto con l'utente non può apparire in modo positivo, ma è segnato da un misto di disprezzo, fastidio e, soprattutto, profonda estraneità. Anche in questo caso, come nel precedente, risalta la simmetria tra la frase di apertura e quella di chiusura, che attestano il distacco come virtù chiave. La sensazione è che qui non si tratti tanto di una necessità deontologica che, pur in modo complesso e variegato, fa parte del corredo di ogni operatore sociale: piuttosto, come ben esplicano le altre frasi, "distacco" sembra sinonimo di indifferenza, lontananza.

Dalle altre frasi è interessante notare alcuni elementi: l'equivalenza tra utenti e bambini, in senso negativo, come se facessero dei capricci; una certa vocazione poliziesca e giudiziaria, da interrogatorio e processo; il senso di superiorità verso gli assistiti, quasi a voler attestare che se stanno male un po' è anche per colpa loro.

Ciò nonostante, pure in questa ipotesi di insensibilità programmatica, una frase denota una profonda paura: l'effetto specchio tra operatore e utente, ovvero la dimensione umana che non si può eliminare completamente e crea ponti non sempre prevedibili e controllabili anche tra chi assiste e chi è assistito: "In loro ritroverai esasperati tutti i tuoi problemi".

Non a caso, nella seconda parte del film Hes cambierà profondamente proprio quando incontrerà Anna, che tutti gli altri trattano come una demente senza speranze e invece con lui sarà capace di fare grandi progressi, costruendo un rapporto umano impensabile. Ma pagherà questa sua mutazione con il licenziamento, poiché si è "insubordinato" ai dettami che vogliono l'assistente sociale freddo, distante ed insensibile..

Dov'è

Il luogo in cui sono ospitati i servizi sociali è sgradevole fin dalla prima inquadratura che apre il film: una pala cigolante dà il ritmo di tediosa routine, la rete in primo piano rende l'idea di costrizione, al cui interno si trovano decine di persone in attesa dell'apertura, quasi accampate.

Dopo questo incipit, caratterizzato dall'illuminazione piuttosto bassa e da una gamma cromatica che varia dalla freddezza dei grigi all'ombrosità dei neri, la descrizione dell'ambiente è affidata a una serie di dettagli su alcuni oggetti che caratterizzano la quotidianità lavorativa, con chiara valenza simbolica. In ordine, vengono mostrati in rapida successione un orologio, la grata del pavimento vista dal basso, raccoglitori da schedario riposti nello scaffale, una macchina da scrivere in azione, un telefono mentre si riattacca la cornetta, tre cartelline che vengono richiuse, una porta che viene serrata, la cartolina oraria di un dipendente, la timbratrice meccanica, lo schedario dei dipendenti che escono, una porta che si apre, un cappello che qualcuno si mette in testa, un ombrello che viene aperto. L'elenco è lungo, ma permette di cogliere che l'insieme di questi oggetti di per sé eterogenei - esaltati dal dettaglio e dalla rapida successione in cui vengono presentati - tendono a fornire alcune ricorrenze emblematiche: la burocrazia del lavoro, con i vari verbali, la cartelline, gli schedari, senza che si intraveda mai una persona; la routine dei gesti, spesso reiterati, che dall'orologio iniziale giunge alla timbratrice di fine giornata; il senso di chiusura, per cui molti di questi oggetti sono riposti, archiviati, o mostrano gesti finali.

Senza alcun dialogo o musica, affidando ai rumori il compito di enfatizzare il dato realistico bruto, l'ambiente così descritto è completamente spersonalizzato, segnato dalla totale assenza di comunicazione umana. Non appare casuale che gli unici elementi riferiti all'apertura abbiano a che fare con il rientro a casa dal lavoro, nel finale della serie.

Anche nella parte conclusiva della sequenza, l'ambiente non sembra un semplice sfondo, ma piuttosto il simbolo di un luogo chiuso in sé e non accogliente: molti numeri che segnano uffici e luoghi, lunghi corridoi sotterranei - quasi a enfatizzare l'invisibilità dei servizi e l'assenza di un orizzonte, di aria e luce - sporcizia per terra, dimensioni labirintiche esaltate dall'ampiezza delle inquadrature, montacarichi sempre in azione e, per finire, un pesante cancello che si chiude nella notte.

I gesti chiave

In una sequenza dominata dal dialogo, molti gesti chiave sono riconducibili all'assistente sociale Hes solo a posteriori, e riguardano la serie degli oggetti simbolici, che enfatizzano il senso di chiusura e di consuetudine routinaria spersonalizzante, analizzati specificamente nel paragrafo Dove è. Anche i pochi gesti che Hes compie "in diretta" non si discostano affatto da tali sensazioni: firma il registro che gli porge il collega Schram, prende un timbro, chiude varie porte, consegna le cartelline al portiere. Ma l'azione più significativa, che anche la regia prolunga in due inquadrature differenti, è forse lo strappo dal calendario a muro del numero del giorno appena trascorso, cui segue il lancio nel cestino del foglio appallottolato, proprio mentre sta spiegando al giovane tirocinante: "Ogni giorno la sala d'attesa deve essere svuotata". In questo gesto sembra emergere la soddisfazione per una giornata di lavoro appena terminata - vissuta però probabilmente come una sequela di attività simili e frustranti - ma anche il piacere di buttare nel cestino quel che resta di quella giornata faticosa. Svuotare la sala dagli utenti, archiviare in un cestino il peso della giornata trascorsa: è fin troppo evidente il gioco metaforico della regia, con l'utente che appare assimilato a un qualcosa di cui liberarsi senza troppi problemi, un rifiuto da cestinare. Coerentemente, dal punto di vista registico, quando Hes e il tirocinante si avviano verso l'uscita, nei corridoi incrociano gli addetti alle pulizie che stanno spazzando cumuli di carta straccia, ripulendo l'ambiente. Esattamente là dove, durante il giorno, si erano affollati gli utenti.

Chi ne parla e come

La qualifica di assistente sociale non viene attribuita direttamente in questa sequenza iniziale, ma la regia preferisce utilizzare in modo più tendenzioso i vari simboli visivi degli oggetti legati ai gesti quotidiani e le frasi pronunciate da Hes, per far capire allo spettatore che si tratta non tanto di un lavoro sociale quanto di un atteggiamento burocratico e spersonalizzato. In questo modo, pur essendo protagonista assoluto del film, Hes non viene presentato in relazione alla sua qualifica - che sarà esplicitata solo successivamente - ma piuttosto in relazione al suo atteggiamento cinico e negativo, quasi a voler suggerire che l'idealtipo di operatore sociale parta da tali attribuzioni e non da competenze e capacità specifiche.

Dalle parole del protagonista, specificamente analizzate nel paragrafo Cosa dice, emergono alcuni elementi chiave che sembrano caratterizzare la categoria degli assistenti sociali a partire dall'esperienza direttamente maturata sul campo da uno di loro, che non a caso funge da tutor nei confronti del giovane tirocinante. E' interessante notare che proprio in relazione al rapporto tra il professionista esperto e la matricola da formare, la differenza non si pone solo sull'asse anagrafico, ma anche su quello motivazionale e autorappresentativo. L'assistente sociale di lungo corso appare demotivato e cinico, e considera il proprio ruolo come quello di un funzionario pubblico che deve quotidianamente smaltire una certa quantità di pratiche, non importa se cartacee o umane, nel tempo prefissato, cercando di risparmiare sulle risorse e senza alcun coinvolgimento personale. Il giovane tirocinante, fresco di studi, pur costretto ad ascoltare passivamente, appare invece agli occhi di Hes come una sorta di idealista che vede nella professione la concreta possibilità di aiutare le persone, prendendosi in carico le loro richieste di aiuto. Quale delle due rappresentazioni rischia di essere più stereotipata?

Da che parte sta

Il film di Seunke è uno dei rari casi in cui l'assistente sociale è assoluto protagonista e non semplice comparsa fugace. Tuttavia, soprattutto nella prima parte, lo spettatore fa fatica a entrare in sintonia con il personaggio di Hes, al punto di dover attendere almeno un quarto d'ora per capire che è proprio lui il personaggio chiave. Sicuro di sé, sprezzante verso gli utenti, freddo nei rapporti umani in genere, tendenzialmente solitario anche in famiglia, Hes non scatena alcun processo di identificazione o perlomeno di complicità con lo spettatore. La distanza viene attestata fin dalla prima inquadratura del film, in cui la grata che si vede in primo piano funziona non solo per rendere l'immagine degli utenti "rinchiusi" nella sala d'aspetto - considerati come massa numerica indefinita e non come persone specifiche - ma anche come dispositivo iconico che si frappone tra lo sguardo dello spettatore e l'ambiente dei servizi sociali, impedendo un ingresso fluido nel film. Tale frazionamento è poi rafforzato dal rapido montaggio sugli oggetti simbolo, e dalla particolare attenzione scenografica alla moltiplicazione delle riquadrature fisiche e ambientali: finestre, porte, spigoli dei muri, corridoi che si incrociano.

Solo nel prosieguo del film, in occasione dell'incontro con Anna, l'utente più problematica e evitata da tutti, Hes cambierà il suo atteggiamento, rendendosi più disponibile e meno sicuro di sé, stimolando una nuova complicità anche con lo spettatore. Ma, non a caso, tale incontro avverrà fuori dai servizi sociali, in un altro spazio, meno gerarchizzato e claustrofobico sia dal punto di vista fisico che simbolico: la casa di Anna.

Ipotesi di lettura

Il film di Seunke è uno dei rari casi in cui l'Assistente sociale è assoluto protagonista e non fugace comparsa. Tuttavia, soprattutto nella prima parte, lo spettatore fa fatica a entrare in sintonia con il personaggio di Hes: sicuro di sé, sprezzante verso gli utenti, freddo nei rapporti umani in genere, tendenzialmente solitario anche in famiglia, Hes non scatena alcun processo di identificazione o perlomeno di complicità con lo spettatore. Solo nel prosieguo del film, in occasione dell'incontro con Anna, l'utente più problematica e evitata da tutti, Hes cambierà il suo atteggiamento, rendendosi più disponibile e meno sicuro di sé, stimolando una nuova complicità anche con lo spettatore. Ma, non a caso, tale incontro avverrà fuori dai servizi sociali, in un altro spazio, meno gerarchizzato e claustrofobico sia dal punto di vista fisico che simbolico: la casa di Anna. In questo senso, la scommessa del film appare da un lato quella di riconsiderare nel tempo il comportamento di Hes, capace di trasformare il proprio approccio; d'altro lato, apparirà evidente la polemica con una certa gestione dei servizi, per cui gli utenti sono in primis dei numeri da far "quadrare" e non delle persone che esprimono dei bisogni con cui confrontarsi.

Pur essendo protagonista assoluto del film, Hes non viene inizialmente presentato in relazione alla sua qualifica - che sarà esplicitata solo successivamente - ma piuttosto in relazione al suo atteggiamento cinico e negativo, quasi a voler suggerire che l'idealtipo di operatore sociale parta da tali attribuzioni e non da competenze e capacità specifiche.

Nella sequenza in esame, che apre il film, la scelta di presentare il personaggio principale solo dopo la serie di dettagli legati al senso di routine e di spersonalizzazione del servizio, funziona come imprinting che ci fa immediatamente associare quel personaggio ai simboli precedenti, tutti riferiti a un'operatività di tipo freddamente burocratico: schedari, cartelline di casi, timbri, orologi.

Sul piano narrativo, Hes funge da formatore nei confronti del giovane tirocinante. Il regista però non sembra dar peso al suo stile operativo, completamente rimosso e sintetizzato nella serie di oggetti simbolo, ma solo alle sue dichiarazioni programmatiche, improntate a scetticismo e senso di frustrazione. Le sue frasi, rivolte al giovane tirocinante, esprimono tre concetti base:


1) il "dover fare", che denota una trasmissione del sapere verticale e non negoziale, che non prevede repliche, ma semplicemente adeguamento ai canoni, che qui prevedono un modello di Assistente sociale impersonale e funzionale a uno stile burocratico, efficientista e indifferente;

2) il "non poter fare", corollario paradossale di quanto affermato prima, per cui è necessario assumere una condizione di passività, rinunciando a qualsiasi velleità di sentirsi parte attiva di un processo di trasformazione, sia verso gli utenti che verso se stesso.

3) l'estraneità nei confronti dell'utenza, vista con un atteggiamento che unisce disprezzo e fastidio, in cui il distacco deontologico sembra trasformarsi in indifferenza, con un certo senso di superiorità verso gli assistiti, quasi a voler attestare che se stanno male un po' è anche per colpa loro.


Pur in questa ipotesi di insensibilità programmatica, Hes fa emergere una profonda paura: l'effetto specchio tra operatore e utente, ovvero la dimensione umana che non si può eliminare completamente e crea ponti non sempre prevedibili e controllabili anche tra chi assiste e chi è assistito, come sperimenterà lui stesso nella seconda parte del film.

L'obiettivo primario dell'Assistente sociale, secondo quanto spiega Hes al tirocinante, è lo svuotamento quotidiano della sala d'attesa, così come un foglio di calendario viene buttato nel cestino alla fine di ogni giornata.

E' interessante notare che proprio in relazione al rapporto tra il professionista esperto e la matricola da formare, la differenza non si pone solo sull'asse anagrafico, ma anche su quello motivazionale e autorappresentativo. L'Assistente sociale di lungo corso appare demotivato e cinico, e considera il proprio ruolo come quello di un funzionario pubblico che deve quotidianamente smaltire una certa quantità di pratiche, non importa se cartacee o umane, nel tempo prefissato, cercando di risparmiare sulle risorse e senza alcun coinvolgimento personale. Il giovane tirocinante, fresco di studi, pur costretto ad ascoltare passivamente, appare invece agli occhi di Hes come una sorta di idealista che vede nella professione la concreta possibilità di aiutare le persone, prendendosi in carico le loro richieste di aiuto. Quale delle due rappresentazioni rischia di essere più stereotipata?

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