Modalità di intervento
Introduzione
Come descrivere e che cosa raccontare delle modalità di intervento, delle strategie e degli strumenti professionali utilizzati dall'assistente sociale nel proprio lavoro?
Sarebbe sufficiente descrivere precisamente i compiti, o non sarebbe piuttosto il caso si mettere in evidenza i nodi critici di una situazione fisiologicamente paradossale? Al professionista si chiede, infatti, di mettersi continuamente in gioco proteggendo e promovendo le persone di cui si occupa, di stabilire una relazione intima ma al tempo stesso caratterizzata da confini precisi tra tecnico e persone, di rendere visibile il proprio lavoro e, al tempo stesso, di rispettare la privacy degli utenti, di dire e non dire.
Numerosi contributi scientifici sottolineano la dimensione costitutiva dell'inenarrabile e dell'indicibile nell'intervento sociale (tra gli altri Soulet, 2003), altri, sebbene evidenzino la delicatezza del lavoro sociale, raccomandano la descrizione e la valutazione degli interventi per renderne visibili i risultati e la complessità insita nei processi (tra gli altri, Bezzi e Palumbo, 1998; Allegri, 2000), anche a scapito di scelte, atteggiamenti e pratiche che restano comunque in ombra
Così, tra autonomia e tecnica, tra strategie ed indeterminazione, tra la necessità di rendere visibile e l'imperativo di non stereotipare, la professione e le specifiche modalità di intervento si prestano a diversi tipi di rappresentazione centrate sull'indeterminatezza e, al tempo stesso, sulla funzione di controllo esercitata. Quanto affermato rende maggiormente comprensibile, almeno in parte, la scomoda posizione del lavoro sociale e la difficoltà a raccontare e a comprendere un intervento quotidiano caratterizzato da un codice di prossimità e, al tempo stesso, da un codice di equilibrata distanza. Eppure alcune definzioni sono chiare: l'assistente sociale è un professionista che agisce nell'ambito di un sistema organizzato di risorse e in base a uno specifico mandato professionale e istituzionale, secondo principi, valori e obiettivi propri, utilizzando schemi concettuali interpretativi, tratti dalle scienze umano-sociali, organizzati in modelli operativo-metodologici specifici.
Il tentativo che qui si propone, come nel resto dell'opera, è di rendere maggiormente accessibile l'attività concreta degli assistenti sociali, senza produrre una semplice descrizione narrativa, accettando, come autori prima ancora che come "navigatori", alcune aree di indicibilità che gioco forza restano allo stato attuale.
Per tutti questi motivi all'interno della variegata gamma di modalità di intervento dell'assistente sociale abbiamo scelto di presentarne due. Quelle che paiono essere caratterizzate dalla capacità di stare in relazione, di promuovere l'autonomia e l'empowerment delle persone, quelle che valorizzano le risorse all'interno della comunità-territorio, quelle che preparano un intervento attento a logiche di rete: l'auto-mutuo aiuto e Colloquio.
L'Auto-mutuo aiuto
Presupposti
Origini
Nati nei Paesi anglosassoni - il primo gruppo di auto-mutuo degli Alcolisti Anonimi è fondato nel 1935 negli Stati Uniti - i gruppi di self-help si sono progressivamente diffusi in Europa, dove sono presenti, accanto ai gruppi tradizionali composti da individui nella medesima condizione e con pari ruolo, gruppi simili ma con la presenza di un professionista, e con strutture di aggregazione più organizzate, che vanno oltre l'immediato benessere dei membri, e che si interessano anche di problemi sociali e politici.
In Italia, fin dai primi anni Settanta si consolida una tipologia piuttosto variegata di gruppi auto-mutuo aiuto: gli Alcolisti Anonimi", i "Club degli alcolisti in trattamento", i gruppi che affrontano problemi di salute (diabete, neuropatie, cardiopatie, neoplasie, problemi alimentari,), i gruppi che affrontano altri tipi di dipendenze (tossicodipendenze, gioco d'azzardo, sessuale etc..). Molti gruppi seguono un processo evolutivo evidenziando nel tempo un maggior bisogno di visibilità sociale, che passa attraverso lo sviluppo di impegno - pressione sociale sul focus del gruppo. In questo senso i gruppi di self help sono organizzazioni sociali che aiutano gli individui a perseguire, in una dimensione personale, obiettivi pubblici, contribuendo così a far progredire le politiche sociali.
Definizione e descrizione
Secondo la definizione di Katz e Bender (Katz e Bender, 1976), i gruppi di self-help:
Sono strutture di piccolo gruppo a base volontaria finalizzate al mutuo aiuto e al raggiungimento di scopi particolari. Sono formati da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare bisogni comuni, per superare un handicap o un problema comune o per impegnarsi in cambiamenti personali o sociali.
Sono costituiti da promotori guidati dall'idea che i loro bisogni non possano essere soddisfatti dalle normali istituzioni.
Enfatizzano le relazioni sociali faccia a faccia e il senso di responsabilità personale dei membri.
Assicurano sostegno emotivo e assistenza materiale e, in alcuni casi, sono orientati a qualche "causa" proponendo ideologia o valori che conferiscono identità personale.
I gruppi di auto-mutuo aiuto sono quindi caratterizzati dall'assegnare importanza alla responsabilità individuale, rispetto al proprio cambiamento. Partendo dai bisogni materiali, i gruppi di mutuo aiuto allargano il proprio intervento alle esigenze di cambiamento individuale e sociale.
La diffusione dei gruppi di auto-mutuo aiuto, infatti, introduce innovazione non solo per i membri che partecipano direttamente alla vita dei gruppi di self help, ma produce mutamento anche per persone che non sono direttamente coinvolte.
Le organizzazioni di self help attualmente attive rappresentano una grande varietà di tipi, scopi, strutture: per questa ragione il self-help non può essere considerato un fenomeno unitario, definibile in modo univoco.
L'espressione auto-mutuo aiuto si fonda sull'idea che il mutuo aiuto inizia con l'auto aiuto, nel momento in cui la persona riconosce l'esistenza di un problema e si attiva per cercare qualche forma di sostegno. I gruppi di self help mobilitano il sostegno, sia quello percepito sia quello ricevuto. Il mutuo aiuto si verifica, infatti, quando chi aiuta e chi viene aiutato condividono fatti, vissuti, emozioni di un medesimo problema. L'esperienza di condivisione diviene elemento centrale sia per la persona che viene aiutata, sia per la persona che aiuta.
Il sostegno non tipizza tutte le forme di relazione e non tutte le relazioni generano sostegno. È l'azione specifica che svolgono i membri del gruppo a determinare in questi e in altri casi aiuto.
Obiettivi
Fra gli obiettivi principali dell'attività dei gruppi di auto-mutuo aiuto si annoverano: il mutamento del comportamento individuale e di gruppo, facilitando e agevolando una progressiva presa di coscienza; indurre una maggiore consapevolezza e attenzione ai rischi delle diverse forme di dipendenza; creare le basi per una maggiore responsabilizzazione dei singoli, in previsione di un cambiamento della propria visione della via e del proprio stile di vita; i gruppi di auto-mutuo aiuto non si limitano solo a discutere i problemi comuni, ma sono un sostegno affettivo; un supporto emotivo; un'occasione di informazione e consigli, di servizi diretti, di attività sociali e attività di pressione.
Il fenomeno del self help rappresenta l'emergere di pratiche professionali e non professionali che contengono un'intenzionalità di "comunicazione" di tipo orizzontale. Il desiderio di una riappropriazione, al di là degli esperti, del sapere scientifico e professionale. I gruppi costituiscono una risorsa che integra le carenze e i limiti dell'intervento pubblico, proponendosi come piccole comunità di persone che, trovandosi nella stessa condizione di disagio, riescono a superare i loro problemi sia individuali che familiari e, spesso diventano risorsa per il territorio nel quale sono inseriti.
Metodi
Dalla partecipazione alle buone prassi
Nei gruppi in cui si aiutano persone alle prese con situazioni esistenziali stigmatizzanti (omosessuali, persone affette da rilevanti difetti fisici, ex detenuti, ex pazienti psichiatrici), si aiuta la persona a "sopportare" lo stigma e a migliorare l'immagine di sé e nello stesso tempo, si cerca di contrastare il pregiudizio e si tenta di migliorare l'immagine pubblica della propria condizione.
Nei gruppi che hanno a che fare con persone intrappolate in condizionamenti (alcolismo, tossicodipendenza, obesità, fumo) si aiuta la persona a riacquistare un controllo sul proprio comportamento, realizzando un vasto fronte di procedure utili al cambiamento.
I punti focali sui quali sono basati i metodi di partecipazione nei gruppi di auto-mutuo aiuto sono:
empatia;
catarsi;
mutua conferma;
valorizzazione del desiderio;
scambio di informazioni;
circolazione di saperi circa il proprio disagio;
"normalizzazione";
mediazione con le organizzazioni pubbliche e private.
Per quanto riguarda i processi nel gruppo, si possono individuare: l'identificazione del soggetto in un gruppo di riferimento, lo sviluppo del senso di appartenenza, la modificazione dello status sociale, la riduzione dello stigma; la creazione di nuove opportunità di socializzazione e di sostegno emozionale, la progressiva caduta delle difese grazie all'azione, alle discussioni libere, al confronto, all'apertura e l'apprendimento come relazione diretta con l'esperienza e come sperimentazione attiva di nuove modalità di comportamento. La maggiore prossimità alla vita reale rispetto ad altre modalità di aiuto, poiché l'utente-cliente-cittadino diventa produttore/erogatore di servizi.
I gruppi di auto-mutuo aiuto che funzionano hanno in genere sviluppato buone prassi rispetto alle tappe comuni:
essere riusciti a individuare e costituire un primo nucleo di membri fondatori;
accostare membri potenziali per informarli dell'esistenza e degli scopi del gruppo;
predisporre un programma di aiuto che soddisfi i bisogni dei membri;
suddividere le responsabilità del gruppo in modo tale che i membri si siano sentiti coinvolti e si sia potuto realizzare il cambiamento del leader.
L'Assistente sociale nel self help
Sempre più frequentemente i gruppi di self help vedono al proprio interno la presenza di operatori professionisti con ruoli diversificati: si stima, infatti, che quasi la metà dei gruppi di self help abbiano al proprio interno operatori con ruoli d'animazione e di appoggio temporaneo.
Gli operatori sono sempre più promotori di gruppi o facilitatori, inviano utenti ai gruppi, ne favoriscono l'aggregazione, fungono da consulenti in particolari momenti, trasferiscono ai gruppi competenze, partecipano agli organismi di gestione, ai comitati consultivi e alle istanze di coordinamento. Tutto ciò comporta la necessità di identificare le caratteristiche di ruolo del professionista all'interno di tali gruppi e le relative modalità di intervento.
Il ruolo del professionista dell'aiuto nei gruppi di auto aiuto è orientato verso azioni specifiche (McCaughan, 1985) :
Incoraggiare la comunicazione;
proteggere l'individualità;
evidenziare la speranza nell'esperienza del gruppo;
definire la propria funzione;
rinforzare lo sviluppo di norme che agevolino il raggiungimento degli obiettivi;
incoraggiare la valutazione dei compiti;
riconoscere ogni risultato positivo;
incrementare la percezione che i membri hanno delle proprie capacità.
In particolare, la presenza dell'assistente sociale all'interno di tali gruppi, in quanto facilitatore, è guidata da due criteri fondamentali:
promuovere l'autonomia del gruppo attraverso l'assunzione di responsabilità da parte dei membri, la gestione attività, la presa di decisioni;
considerare la continuità del gruppo nel tempo, facendo leva sull'entusiasmo iniziale, ma ponendo la massima attenzione allo sviluppo di una corretta struttura organizzativa e psicologica del gruppo.
Nodi critici
Gruppo e soggetto
La percezione di sé nel gruppo di lavoro, come soggetto che è parte di una rete, ripropone difficoltà simili a quelle che si presentano nel passaggio dalla condizione di gruppo a quella di gruppo di lavoro. Il rischio maggiore riguarda il fatto che qualche rigidità adottata per difendersi, a causa di una presunta fragilità dell'identità di gruppo, impediscano un'autentica integrazione di sé nella rete. In casi come questo, la rete apparirebbe come un elemento che ingloba, in cui il soggetto può perdersi.
Il professionista e l'investimento affettivo
Uno fra i principali momenti di criticità può essere determinato dalla presenza dell'operatore professionale nei gruppi di self help, il quale può produrre il rischio della sopraffazione in virtù delle sue competenze e della sua professionalità. Per questo all'operatore si chiede di misurare l'investimento affettivo, risorsa fondamentale per il gruppo, a favore di un coinvolgimento obiettivo, che favorisca l'allontanamento progressivo del gruppo, anche per contribuire a creare reciproca autonomia, per evitare che l'assenza dell'operatore/animatore diminuisca il trasporto e l'interesse del gruppo e con loro l'efficacia della sua attività. E ancora, l'operatore può contribuire affinché il gruppo si sviluppi correttamente sia rispetto ai singoli ruoli dei membri, sia rispetto ai compiti, nel sostegno psicologico dei membri stessi.
La leadership
Successione del leader: il primo "presidente" di un'organizzazione ha avuto l'incarico per abilità personali e perché di solito è considerato persona di esperienza e carisma. Quando il gruppo cresce la forza del leader può anche diventare un peso. Se il leader ha sempre fatto tutto da solo, senza coinvolgere alcun membro nella responsabilità del funzionamento del gruppo, nessuno sarà preparato a succedergli quando si dimetterà. Alcuni di loro poi non sono sufficientemente competenti a insegnare, senza contare l'affezione per il posto di prestigio.
La divisione del lavoro
Quando i gruppi sono piccoli, si verifica a volte una troppo pesante concentrazione di responsabilità sui membri che non riescono a portare a termine i loro compiti.
La sopravvalutazione delle procedure organizzative a scapito di altre questioni sostanziali
In alcuni gruppi i membri che hanno incarichi organizzativi seguono così alla lettera lo statuto che le cariche diventano fine a se stesse. In questi gruppi, il rischio è che il rispetto dei regolamenti abbiano la precedenza sui bisogni reali.
Le divisioni interne
E' possibile che in alcune organizzazioni o gruppi un certo numero di membri si aggreghino all'organizzazione per utilizzarla per scopi personali. Quando i membri del gruppo sono tutte persone che condividono un particolare problema, altri "simpatizzanti", come i genitori, i coniugi, gli amici, formano in alcuni casi un'associazione parallela, il cui ruolo può però porre alcuni problemi (i membri possono ricoprire incarichi da consiglieri? Hanno diritto di rappresentanza?, ecc.) L'organizzazione deve essere consapevole dei suoi obiettivi e deve definire gli scopi e le attività di ogni gruppo collaterale in modo che questi gruppi non competano tra di loro. Anche quando i membri sono effettivamente affini, può sorgere un certo grado di disaccordo sugli obiettivi e le linee di condotta dell'organizzazione.
Il finanziamento e il bilancio
Se un gruppo non specifica adeguatamente che cosa vuol coprire col suo bilancio, si possono verificare degli abusi. È importante che le decisioni che riguardano il bilancio siano comunicate a tutti i membri in modo tale che ognuno sappia quali sono e tutto il gruppo possa adattare le sue linee di condotta ai bisogni dei propri membri.
Colloquio
Presupposti
Strumento e oggetto
Dal Pra Ponticelli definisce il colloquio di servizio sociale come:
"una forma di comunicazione interpersonale guidata dall'assistente sociale verso uno scopo o una molteplicità di scopi al fine di instaurare con la persona una relazione che favorisca la comprensione reciproca della situazione in esame, permetta di intravedere soluzioni possibili e motivi gli interessati a impegnarsi nella realizzazione dei compiti connessi con le soluzioni prospettate" (1987, p. 144).
Il colloquio è un costrutto polisemico che, nel Servizio Sociale, occupa perlomeno due poli semantici. Una prima importante area di approfondimento concerne quegli studi e quelle esperienze, troppo spesso sottovalutate, di utilizzo del colloquio come strumento di lavoro dell'assistente sociale. Una seconda area propone invece una rappresentazione del colloquio come oggetto di ricerca da interrogare riflessivamente a partire per esempio dall'analisi dei protocolli che vengono scritti o trascritti (se si tratta di registrazioni audio) dall'operatore (Zucca, 1997). Il contributo che segue, affrontate alcuni presupposti generali, propone essenzialmente riflessioni, esempi e esercitazioni sull'utilizzo dello "strumento-colloquio" nei contesti del lavoro sociale.
Trama e contesto
L'assistente sociale utilizza come strumento principale del proprio lavoro una conversazione strutturata e finalizzata che chiamiamo "colloquio".
Un classico della letteratura di servizio sociale - Kadushin (1972) - definisce il colloquio come:
" una conversazione che ha uno scopo preciso, accettato reciprocamente dai partecipanti […..] volto a raggiungere uno scopo scelto coscientemente."
Un primo punto di attenzione per l'assistente sociale è dunque la definizione di uno scopo: "siamo qui per…". La cornice di un colloquio è una sorta di trama che connette (Bateson, 1972), un sistema di significati e di intenzioni che consentono all'assistente sociale di costruire e di delimitare il campo entro il quale l'interazione ha luogo secondo alcuni principi di base, e al cliente di costruire fiducia (Pittaluga, 2000) attraverso il riconoscimento di senso.
Carli (1995) puntualizza ulteriormente la differenza tra colloquio e conversazione, ponendo particolare enfasi al ruolo del contesto nella costruzione di un colloquio:
"..per colloquio si intende usualmente indicare un'interazione non casuale. La differenza tra l'intrattenere quattro chiacchiere ed il fare un colloquio starebbe allora nell'intenzionalità con cui si realizza l'interazione; intenzionalità, per altro, che si può definire operativamente e differenziare soltanto in funzione del contesto e delle sue coordinate organizzative e istituzionali: contesto descritto e definito di volta in volta, esplicitamente o nella prassi."
Nel colloquio non si incontrano soltanto, fisicamente, un assistente sociale ed uno o più utenti, ma si incontrano le loro storie, i loro mondi vitali e le appartenenze socio culturali, in un dato momento ed in un luogo ed uno spazio definiti. In questa prospettiva si può avanzare l'ipotesi che la qualità dei contenuti espressi all'interno del colloquio e degli effetti nella storia di vita dell'utente, dipendano fortemente dalla qualità dei contesti di lavoro. Il contesto (l'ambiente del colloquio, il clima relazionale, la struttura istituzionale,…) diviene in altre parole il terreno entro il quale si costruisce il cambiamento. Ciò fa si che alcuni interventi effettuati, seppur con notevole investimento, all'interno di contesti fortemente ostacolanti, abbiano ben poche possibilità di incidere nei mondi vitali dell'utenza. Questione risaputa sia all'interno degli studi e delle esperienze di servizio sociale di comunità, sia all'interno delle recenti ricerche della psicologia sociale che evidenziano come siano proprio le variabili contestuali a influenzare maggiormente lo sviluppo di atteggiamenti di responsabilizzazione o il manifestarsi di condotte di inerzia da parte delle persone.
Ad esempio….: verso una definizione congrua del contesto di aiuto
Francesco, un signore di 77 anni, viene accompagnato dal figlio maggiore al Servizio Socio-assistenziale del territorio per la valutazione di una richiesta di assistenza domiciliare. Vive da solo da una decina di anni e, secondo il figlio, negli ultimi tempi sono venute meno le condizioni che gli consentivano una vita autonoma presso il proprio domicilio (da qualche mese apparirebbe un pò disorientato spazio-temporalemente). Sin dalle prime battute del colloquio l'anziano non concorda con la definizione del problema che presenta il proprio figlio e sostiene di non aver bisogno di alcun aiuto da nessuno. E' visibilmente teso e si rivolge all'assistente sociale con modalità scontrose. Nella cartella l'assistente sociale riporterà l'impressione che le sue domande, volte a conoscere la situazione dell'anziano, rimbalzino contro un muro. Francesco risponde a monosillabi, nonostante i tentativi di mediazione del figlio, evita di incrociare lo sguardo dell'assistente sociale. Dentro di sé ha deciso che il colloquio è concluso.
Ma è la ricezione attenta di una frase sussurrata al figlio che consente all'assistente sociale di entrare in contatto con l'anziano. "Non la voglio questa qui": l'assistente sociale evita di autoriferirsi a livello personale l'affermazione e, avanzando dentro di sé l'ipotesi che la frase potrebbe concernere una rappresentazione distorta di ruolo, chiede a Francesco "per cosa (per quale tipo di intervento) non la vuole". "Non la voglio in casa quest'assistente" dice Francesco al figlio.
E' il significante "assistente", pronunciato inizialmente, che ha tratto in inganno gli attori di un colloquio che, agli occhi di Francesco, costituiva già una sorta di presentazione dell' "assistente" - per lappunto - domiciliare.
Francesco si percepiva - come ebbe modo di esplicitare - "già in trappola": gli altri avevano deciso per lui (bisogni e tipologia di intervento) e non aveva altre possibilità che tentare di esprimere tutte le resistenze possibili. Una ridefinizione del contesto di aiuto più congrua ("siamo qui pr capire e per ragionare insieme a lei…."), consente invece all'assistente sociale di offrire uno spazio autentico di autodeterminazione a Francesco, pur tenendo conto delle preoccupazioni del figlio e dell'esigenza di valutare approfonditamente le difficoltà segnalate.
Obiettivi
Il colloquio è uno strumento del Servizio Sociale teso a raggiungere alcuni obiettivi interni alla relazione di aiuto. Un richiamo di certo generale a questi obiettivi ci consente di restituire valore a quelle qualità del colloquio che non sono direttamente attribuibili al buon governo della tecnica ma che sono connesse maggiormente all'etica del "prendersi cura".
Colloquio come processo conoscitivo e luogo espressione di capacità relazionali
Nel colloquio entrano in gioco importanti capacità relazionali che consentono all'assistente sociale di avvicinare situazioni complesse di persone che spesso presentano serie difficoltà nel comprendere ciò che sta loro succedendo. In termini sistemico-relazionali (Campanini, 2000), ciò comporta la tendenza dell'utenza a comunicare tali difficoltà più sul piano della relazione che sul piano del contenuto. Per esempio una signora può "far sentire" la rabbia che prova verso il proprio partner mostrandosi arrabbiata e scontrosa verso il servizio sociale, piuttostochè dimostrandosi disponibile a riflettere sulle ragioni di tali sentimenti. Immette direttamente nella relazione di aiuto, senza riuscire a utilizzare filtri cognitivi, emozioni e difficoltà che incontra nel proprio ambiente familiare. Ciò rappresenta sia una importante fonte di conoscenza per l'assistente sociale (che può "respirare" il clima che la signora vive all'interno delle mura domestiche), sia un considerevole ostacolo intrinseco alla costruzione di un clima di fiducia, essenziale per la costruzione di un'alleanza di lavoro sul compito (Ferrario, 1997).
Per questa ragione l'assistente sociale deve costruire una certa empatia intesa come capacità di "stare con e per", di "essere e restare" emotivamente con il cliente mantenendo la distanza (riconoscere la sofferenza senza esserne travolti) e come capacità di percepire sentimenti ed emozioni dell'altro e di riconoscere la sua unicità. L'empatia fonda la relazione d'aiuto (per aiutare bisogna comprendere i bisogni e i vissuti del paziente), evitando sia l'eccessivo coinvolgimento (dove la relazione è amicale e non più trasformativa), sia l'isolamento affettivo (che è una difesa e fuga dalla relazione), e richiede all'operatore anche la capacità di esaminare le proprie reazioni emotive. Per questo motivo nel colloquio l'autenticità è la qualità più importante, fatta di sincerità, costanza di comportamenti e atteggiamenti, congruenza fra pensieri, parole e azioni (per es. non fare "come se" perché l'utente perdona gli errori di tecnica ma non il non esserci con lui).
Colloquio come accompagnamento di processi di autodeterminazione
L'autonomia e la reciprocità sono altrettanto importanti, poiché spesso la relazione di potere fra istituzione e utente favorisce la regressione e lo stato di dipendenza dell'altro e lo stereotipo che questi non riesca a partecipare attivamente al trattamento e alla guarigione (e tale pregiudizio alimenta poi la tendenza regressiva che già spesso ogni persona in difficoltà attua come difesa).
Così può risultare fondamentale esplorare nella relazione con una donna affetta da una sclerosi multipla che la costringe all'uso della carrozzina - che per lunghi anni ha usufruito di proventi economici di natura assistenziale - i vantaggi e i rischi presenti laddove avesse la possibilità di abbandonare le ancore sicure del contributo economico per avviarsi verso mete più insicure, ma potenzialmente gravide di possibilità di realizzazione, di un inserimento lavorativo in un'azienda. Se l'assistente sociale occupa precocemente la posizione di chi promuove l'autonomia, questo potrebbe comportare il consolidamento di aspetti di natura regressiva nell'utente (paure e resistenze che devono poter essere espresse). Dall'altro lato anche l'assistente sociale potrebbe essere intrappolato in una rappresentazione di questa signora che tende a mettere in evidenza gli aspetti deficitari e non aver raccolto a sufficienza le sue esperienze e le competenze. La reiterazione delle richieste assistenziali aveva amplificato una serie di elementi problematici, certamente presenti, ma che avevano del tutto oscurato che questa donna aveva maturato una buona esperienza di segretaria e ottime competenze di natura informatica che poteva tornare ad esercitare nella nuova sede lavorativa.
Colloquio come strumento di valutazione
Per comprendere efficacemente, senza scivolare in facili eufemismi, i significati presenti nell'uso del colloquio per valutare-verificare-monitorare-indagare-controllare, si può fare riferimento alla propria esperienza di studenti (per quel che riguarda le emozioni presenti nei momenti i valutazione individuale e di gruppo), oppure si può tentare di indossare i panni dell'utenza. Seguendo quest'ultima prospettiva, non è mai il caso di dimenticare che molti utenti si rivolgono a un servizio sociale come ultima ratio di una lunga catena di tentativi di problem solving che vanno dall'autogestione, alla richiesta di aiuto interna alla propria rete informale, al ricorso a figure professionali di fiducia ma non sempre competenti per quel determinato problema (un medico di base per es.), ecc.
Rivolgersi ad un altro (anche solo un singolo amico o a un familiare) già di per sé comporta una certa messa in gioco del soggetto. Rivolgersi ad un servizio sociale (prima ancora del singolo operatore, l'utente incontra un'istituzione pubblica con le relative rappresentazioni non sempre rassicuranti che le burocrazie pubbliche portano con sé), specie se sull'onda delle pressioni di un familiare o perché convocati dal servizio stesso, attiva sin dall'inizio quelle immagini che fanno da controaltare ai diversi significati dell'aiuto. Ecco allora che l'assistente sociale si troverà a gestire equilibri e equlibrismi delicati tra aiuto e controllo, dovendo comprendere in quali contesti la valutazione può rappresentare un importante momento per sollecitare atteggiamenti di responsabilizzazione, di riconoscimento o, al contrario, di richiamo rispetto a impegni presi all'interno del contratto di aiuto.
Metodi
L'operatore sociale, in quanto professionista e ancor di più se dipendente di un Ente pubblico, non può sottrarsi a interazioni talvolta difficilmente gestibili. Se la richiesta è coerente con il proprio mandato istituzionale egli deve accogliere la richiesta di colloquio anche se potrà essere difficile ed emotivamente pesante gestire i contenuti che emergeranno. A differenza dell'utente, dovrà essere in grado di gestire il colloquio fino al suo termine e cioè fino al raggiungimento dello scopo che ci si è prefissati.
Colloquio come assetto
L'assistente sociale dovrà presidiare un certo assetto metodologico che consenta di contenere e gestire richieste e emozioni di complessa delimitazione.
Si può pensare al colloquio come ad una "commedia ad un solo atto", con un inizio, uno svolgimento ed una conclusione. Gli scrittori (operatore e paziente) possono , per scelta e necessità, costruire e mantenere un filo logico tra "racconti" successivi. Ma la regia rimane all'assistente sociale, sospeso costantemente tra due processi: di partecipazione attiva (l'atto conoscitivo, il contatto emotivo con l'altro) e di controllo di processo (il governo del contesto e della metodologia, la capacità di prefigurare le mosse successive del processo di aiuto).
Gli autori, sebbene in un processo di co-costruzione del colloquio, hanno ruoli e compiti differenti. Il cliente porta molto o poco materiale, spesso non ben organizzato, problemi da risolvere, dubbi e quesiti che aspettano risposte. L'assistente sociale assume una funzione dinamica di catalizzatore: aiuta il cliente ad organizzare le informazioni a disposizione e a reperirne altre, a vagliare le soluzioni già tentate e quelle tentabili, a riconoscere e gestire le proprie emozioni.
Il colloquio è un tipo di relazione non reciproca ed asimmetrica tra i partecipanti ove l'operatore deve assumersi la responsabilità di "governo" di essa cioè deve far sì che sia proficua per l'utente e volta ad un suo miglior funzionamento sociale.
I partner della relazione, poiché essa è asimmetrica, hanno un potere di influenzamento differente del quale l'assistente sociale deve essere cosciente. Mentre l'utente ha soltanto il potere di sottrarsi alla relazione, l'operatore può "ricompensare" l'utente con l'erogazione o meno di servizi o prestazioni, talvolta ha anche un potere coercitivo nei suoi confronti.
Atteggiamenti professionali
Abbiamo elencato una serie di qualità ed atteggiamenti che l'operatore sociale non acquisisce solo in seguito a particolari training formativi ma che si presumono posseduti, in quanto soggetto che ha raggiunto uno stato adulto della mente, inteso come equilibrio e maturità psichica, composto da un insieme di elementi cognitivi ma soprattutto e prima emotivi e affettivi.
Uno stato adulto della mente inerisce anche una buona consapevolezza di sé, del proprio mondo interno, dei propri limiti e conflitti non risolti, per non proiettare eccessivamente sull'altro propri pensieri ed emozioni e per riuscire a tollerare la sofferenza dell'utente senza farsene travolgere. E' necessario inoltre saper tollerare l'incertezza, la frustrazione di non capire e non saper spiegare sempre tutto, di non poter raggiungere sempre successi atti solo a confermare la propria bravura di operatori . Questo significa abbandonare un'immagine di sé onnipotente, basata sull'idea che il fare continuamente qualcosa possa risolvere tutti i problemi dell'utenza, e contemporaneamente saper tollerare i propri limiti.
L'ascolto è un aspetto fondamentale del colloquio, ma ciò che distingue il nostro agire professionale ad esempio dallo psicoanalista è che esso è per noi un processo orientato alla realtà, attento a cogliere gli aspetti verbali e non verbali della comunicazione, i fatti e gli elementi emotivi, e deve facilitare le comunicazioni dell'altro. L'operatore può aiutare l'utente ad individuare quali argomenti sono centrali nel discorso, a parlare della sua situazione in maniera non affrettata , ad esprimere ciò che prova .
L'atteggiamento professionale ci consente di osservare uno stile professionale al lavoro, una modalità di costruire fiducia e di accompagnare processi di cambiamento realistici. Nel colloquio diviene allora fondamentale porre attenzione alle coerenze (in che misura, per esempio, una disponibilità dichiarata all'ascolto è davvero riscontrabile dall'utente nell'hic et nunc del colloquio?) e allo sviluppo della fiducia verso l'assistente sociale e verso il servizio che egli rappresenta (in che misura l'utente può permettersi delle aperture anche su aspetti emotivamente pregnanti?)
Porre le domande
Durante il colloquio è consigliabile rivolgersi all'utente con delle domande aperte che consentano di ricevere risposte più ampie e incoraggino a parlare più a lungo. (Come si sente.. Cosa pensa su..)
Questo tipo di domande permette anche di assicurarsi che l'utente abbia compreso le informazioni trasmesse e anche di affrontare i suoi vissuti emotivi. Al contrario domande chiuse o che pongono due alternative restringono il ventaglio di risposte possibili.
Nella tabella riassuntiva degli atteggiamenti che proponiamo, abbiamo cercato di porre particolare attenzione alle modalità con cui possono essere poste le domande da parte dell'assistente sociale:
Invitare a parlare
Non la vedo come al solito... c'è qualcosa che la preoccupa? Vorrebbe parlare di qualcosa in particolare oggi? Mi sembra preoccupato: è vero? (alla fine della discussione) C'è dell'altro?
Dare attenzione
Ascoltare attentamente e osservare i diversi modi in cui l'utente cerca di comunicare.
Incoraggiare
Far sentire all'altro che lo si sta realmente ascoltando (Sì...; Capisco...; E allora?; Continui...). Riprendere l'ultima affermazione del paziente (es. se il paziente dice: Il lavoro mi stanca..., riprendere dicendo: Mi diceva che il suo lavoro...).
Ripetere
Sintetizzare all'utente, utilizzando le sue stesse parole, il problema che sta cercando di esporre, che in tal modo viene rinforzato (Così lei non è sicura di volere vaccinare suo figlio?).
Riflettere le sensazioni
Rinviare all'utente le sensazioni che sta comunicando, sia con le parole, sia con il linguaggio corporeo (Mi sembra che stia bene. Mi sembra molto amareggiato).
Ripetere il significato
Riassumere sinteticamente sentimenti e contenuti per ottenere conferma sul significato: Mi sembra... perché....; Lei è... perché...; Lei è... per questo...(es. Mi sembra che i suoi progressi le facciano piacere, ma lei è depresso perché i suoi figli sono andati via di casa).
Riassumere
Riformulare brevemente i contenuti e le sensazioni espresse nella conversazione, per confrontare con l'utente ciò che si è capito e verificare se la propria affermazione è accurata (Mi sembra che la cosa principale che lei ha detto sia... ho capito bene?).
La conclusione del colloquio
Il termine del colloquio va in qualche modo preparato: Kadushin (1972) afferma che verso la fine del colloquio si debbano rendere meno vivi i sentimenti ed i contenuti affinché l'utente possa separarsi emotivamente dall'assistente sociale e dal servizio. E' importante che l'operatore ricapitoli brevemente i temi trattati e riassuma le eventuali decisioni concordate.
Il colloquio può iniziare e terminare con una breve fase di conversazione che mette a suo agio il cliente e funge da ponte tra il "dentro ed il fuori" del colloquio.
Nodi critici
Il colloquio è uno strumento complesso e fragile, esposto ai venti e alle correnti di quelle relazioni che concernono ambiti mulitproblematici che non si lasciano facilmente avvicinare per poter essere compresi e, qualche volta, accompagnati in percorsi di empowering. Nelle esperienze di lavoro che abbiamo incontrato in questi anni, il colloquio è poi al contempo lo strumento per eccellenza dell'assistente sociale e uno strumento che rischia continuamente di divenire routine svalorizzata.
La scissione teoria / prassi
In una critica serrata a certi modi diffusi di connettere teorie e prassi in ambito psicoanalitico, Spence (1995) afferma che occorrerebbe fare riferimento alle consuetudini presenti nella giurisprudenza, dove la teoria viene costantemente interrogata alla luce della disamina di singole sentenze che "fanno storia". La possibilità - interna alla comunità professionale dei giuristi - di consultare materiali connessi ad un singolo caso e di poter ricostruire la memoria dei pareri contrastanti, consentirebbe, a giudizio dell'autore, di fare teoria a partire dallo studio del particolare (e, aggiungiamo noi, dalla valorizzazione del conflitto delle interpretazioni) e di evitare quel noto parallelismo che vede la teoria percorrere segmenti concettuali talvolta idealistici e che difficilmente trovano poi riscontro nelle prassi locali.
Riteniamo che questa valutazione sia quanto mai riferibile alla letteratura presente sul colloquio, ricca di manuali che, da Rogers in poi, sono molto ricchi di indicazioni, consigli, avvertimenti che riescono però poco a misurarsi con la complessità di quei nuclei mutliproblematici così presenti negli schedari dei servizi sociali. All'assistente sociale è richiesto di tentare applicazioni riflessive dei vari modelli presentati nei testi, operazione che di per sé arricchisce una comunità professionale al lavoro; ma sembra ostruito il canale opposto (pratica vs. teoria) che dovrebbe consentire la costruzione e reinterrogazione dei modelli a partire dall'analisi di situazioni specifiche e a forte caratterizzazione contestuale. Poche altre professioni hanno così fortemente disinvestito sulla messa in comune (a livello scientifico) di casi di studio, di ricerche e prassi di qualità a livello locale che quando trovano spazi di pubblicazione rischiano spesso di essere descritte con modalità così generalizzanti da poter essere poco oggetto di discussione nei luoghi di produzione del sapere professionale.
La centralità del contesto
La presenza nella maggior parte dei casi di contesti istituzionali "pesanti" (si pensi alle situazioni sottoposte a provvedimenti dell'A.G., o all'influenza di vertici dirigenziali o politici poco sensibili alle logiche del servizio sociale) comporta l'immissione-intrusione di variabili che minano fortemente quei presupposti e quegli atteggiamenti che ci siamo limitati a riprendere all'interno di questo contributo. Si potrebbe, a fronte di questa considerazione, immaginare che in un contesto privato e libero- professionale l'assistente sociale potrebbe godere di maggiori gradi di libertà connessi alla relazione con il cliente. In parte ciò può essere vero per la minor irruenza di barriere e di inerzie organizzative (si pensi per es. alle difficoltà di accesso per liste di attesa o per la "farraginosità" di alcune regole presenti in alcuni servizi pubblici ancora poco attenti alla domanda del cliente); ma si tratta per altri versi di una illusione se, considerando lo specifico dell'assistente sociale, si presuppone che le domande di aiuto di un singolo riguardino molto spesso la relazione di questi con i propri sistemi informali (la famiglia in primis) e formali (le istituzioni). Ecco allora che la relazione di aiuto diviene un campo di gioco dove contemporaneamente - parafrasando Wittgstein - si deve comprendere da che giochi si è giocati e quali sono le regole della comunicazione. In questo scenario riteniamo che ancora molta strada si debba percorrere per costruire una professione che sappia modificare in progress la sua capacità di intercettare la domanda sociale per come si compone e per come muta nel corso del tempo. Si tratta di questioni che l'utenza conosce bene laddove rileva l'incapacità di certi servizi di stare al passo dei cambiamenti dei problemi sociali (delle nuove povertà così come dei cambiamenti delle patologie socio-sanitarie).
Bisogni da soddisfare o problemi da fronteggiare?
All'interno di una riflessione metodologica, riteniamo che un nodo critico sia oggi rappresentato dal rischio di creare confusione (o facili quanto fragili intese) intorno all'utilizzo del colloquio per l'analisi dei bisogni che può ritrovarsi riduttivamente intesa come:
Analisi globale delle aspettative: è molto importante analizzare aspettative e rappresentazioni del servizio ma se indulge in un atteggiamento eccessivamente oblativo ciò rischia di generare attese e illusioni che non potranno poi essere realisticamente realizzate. In questo caso si rischia così di generare nell'utente una certa infantilizzazione della relazione di aiuto.
Analisi dei bisogni da soddisfare: anche in questo caso il rischio è di costruire un'immagine infantile della relazione di aiuto come di uno spazio di soddisfacimento dei bisogni dell'utente che poco spazio concede ad una riflessione sul disagio, sulle mancanze e sulla necessità - tipiche dell'adulto autonomo - di apprendere a tollerare il rischio e la sofferenza (e non tanto di eliminarle protettivamente dal proprio spazio di vita).
Questa facile transitabilità del concetto di bisogno nell'area delle relazioni di aiuto infantilizzanti, ci spinge a pensare al colloquio nel Servizio Sociale come a uno strumento di conoscenza-risignificazione e fronteggiamento di problemi che, sempre più spesso, subentrano nelle persone non solo di ceto basso, nel corso di eventi critici dei propri cicli vitali. In questa prospettiva non si tratta tanto di anticipare una fase di analisi globale dei bisogni alla realizzazione di interventi che, anche per vincoli istituzionali, non possono poi di fatto tenere il passo con i bisogni presi in esame; quanto piuttosto la posto in gioco diviene cercare di costruire delle prime ipotesi intorno ai problemi che hanno portato la persona a rivolgersi nell'hit et nunc al servizio, cercando di negoziare un percorso realisticamente sostenibile.
Sperando che non diventino tutte chiacchiere…
Durante la nostra attività professionale articoliamo, partecipiamo, viviamo un numero ad un certo punto incalcolato di colloqui con persone differenti e simili, conosciute e sconosciute. E' importante a nostro avviso non lasciare che ci scivolino addosso come uno dei tanti adempimenti, magari burocratici, del nostro lavoro ma che ci consentino di sviluppare quelle capacità riflessive così cruciali nella nostra professione (Allegri, 1997). Il rischio più evidente è che, burocratizzandosi, i colloqui tendano a divenire uguali e a perdere un proprio significato originale, come quelli tra Estragone e Vladimiro in "Aspettando Godot" di S. Beckett (1974):
"Estragone: Cosa abbiamo fatto?
Vladimiro : Cerca di ricordarti.
Estragone: Bè ….dobbiamo aver chiacchierato.
Vladimiro: A proposito di chè?
Estragone: Oh.. di tutto un po', forse di questo e quest'altro (con sicurezza) Ecco, adesso ricordo , ieri sera abbiamo chiacchierato di questo e quest'altro. Sarà mezzo secolo che non facciamo altro."
Rinvii
Racconti e rappresentazioni
Confronta la teoria qui delineata con la messa in scena di un colloquio: che cosa si dà per scontato, cosa invece viene tematizzato meglio?
Confronta la teoria con la messa in scena di un colloquio: che cosa si dà per scontato, cosa invece viene tematizzato meglio?
Confronta la teoria con la messa in scena di un colloquio: che cosa si dà per scontato, cosa invece viene tematizzato meglio?